di Giorgio Seveso
Proviamo a passare il palmo della mano lungo le curvature di una scultura di Filippi, o carezziamo con le dita e con gli occhi le lente spirali di un suo dipinto, avvolte come sono da un’architettura di conchiglia attorno ad un grumo invisibile di sensualità.
Ecco che subito, senza sforzo alcuno, lievemente, lietamente, veniamo attirati nel vortice tranquillo di un sentire sottile, assorbiti dal flusso tattile
di una percezione tanto gentile quanto esplicitamente corporea, sensuale, voluttuosa.
La sua arte, difatti, da quando ha iniziato a integrarla senza timidezze né reticenze con il lavoro che svolge quotidianamente nella sua vita professionale, è un’arte risolta nel senso del morbido e del sinuoso, dell’evocativo corporeo e sensuale. È un’arte fatta di semplicità ma anche di intuizioni emotive complesse, di sussulti enigmatici che si distendono con suggestione attorno a una sorta di erotica del curvo e dell’ondulato, a una vera ebbrezza del colore profondo e felpato: forme e toni cromatici come segni morbidi d’alabastro, disciolti nei molti toni del blu di un lago di cobalto o illuminati nelle bianche dissonanze di candori eburnei.
Ma queste variate presenze allusive del corpo, queste fluide e roride rotondità sensuali, sempre diverse eppure anche sempre vistosamente improntate a una coerenza impeccabile, costituiscono qui qualcosa di più che un richiamo soltanto segnico, che l’eco di una dilatazione passionale o osservazione meramente estetica per il corpo femminile, o comunque per il corpo tout court, per il corpo dell’amore e della dolcezza, della passione ma anche della tenerezza.
Costituiscono infatti anche – e forse soprattutto – le tracce di una metafora aperta, commossa, palpitante, nel loro manifestarsi come poesia generale dei sensi e, insieme, della forma: poesia, può darsi, ancora sorgiva ma anche profondamente coinvolgente, e perciò a modo suo risolta e compiuta nella propria dignità di linguaggio.
Ed è proprio dalle sintassi e dagli accenti di questo linguaggio che le sue opere divengono oggi, ormai, qualcosa capace davvero di fissare nella materia dell’immagine brani di grazia e di passione meditativa, ma, anche, interrogazioni aperte: per ragionare sulla genesi dei sensi e del sentire, sulle emozioni della pelle e dell’anima, alla luce di una sommessa, sobria contemplatività che ha tutto il mistero e l’ambiguo fascino di un lirismo tenero ma anche vigoroso.
Oggi, insomma, dipingere e plasticare sono per Filippi in primo luogo una sorta di messa a fuoco interiore, in cui la dimensione psichica giunge a prevalere, riabbracciando e riconciliando nel gesto creativo la dimensione solo razionale assieme a quella solo estetica o contemplativa, fino alla pacificazione della sintesi, fino all’armonia difficile della poesia.
Infine, ultimi ma non meno importanti, sono la ricerca di una personale miscela sensitiva delle forme e delle tecniche che, in queste stesse immagini, vede coesistere tra loro con medesimo valore sia indizi figurativi, torsioni espressionistiche di corpi e di gesti, di carezze e tenerezze, che simultanei segni astratti, aniconici e puri, sciolti da qualunque racconto.
La lenta sostanza dell’arte – diceva Paul Klee – “non ripete le cose visibili, ma rende visibile”. E questa visibilità del reale in ciò che prima non era visibile, in ciò che l'artista coglie in sé con la vista della mente e del cuore, costituisce davvero un punto d’approdo immaginifico e avvincente per un viaggio straordinario dalle molte suggestioni.
Il risultato? Tutto ciò che Filippi ci mostra con queste sue opere è metamorfosi poetica, interpretazione espressiva, sentimento esplicitamente raccontato nel fascino sottile delle elaborazioni della memoria e delle trasfigurazioni.
Emozioni autentiche, dunque, squisitamente carnali e insieme intessute di inafferrabili vibrazioni liriche, di trepidazioni intime e segrete che si dispiegano fervidamente sotto le sue dita e sotto i nostri occhi.