di Aldo Carrozza
Pieralberto Filippi è un artista. Un artista vero. Che sa soffrire e gioire nella passione della creazione, e sa riflettere sulla fertilità dei linguaggi dell’arte. Sin dagli anni Sessanta è stato combattuto nella sua ricerca sui linguaggi a lui più consoni per concretizzare la sua voglia di “esprimersi”. È stato sassofonista, ha amato sempre il jazz, ma il suo interesse è stato attratto via via dai codici visivi. Ha fatto il pittore scoprendo, però, che questa attività altro non era che la strada che lo avrebbe portato alla scultura. Filippi, oggi, è prevalentemente uno scultore: uno scultore con l’animo sedimentato dalle torsioni multimediali dell’arte: si esprime motivato da un background ondulato d’interessi.
Proprio nell’ondulazione ricca della sua personalità ha trovato il modo di concepire le sue forme. Forme ondulate ma levigate. Forme che giocano ad essere una proposta irrisolta tra concavità e convessità. Tra pieno e vuoto. Per riproporre l’antico dilemma del dualismo fondante. Dilemma che interessa sempre: che riguarda non solo gli artisti, ma qualunque mente interrogante.
Sara Fontana ha scritto che segno e volume sono le chiavi per leggere l’arte di Pieralberto Filippi. È vero: però bisogna aggiungere che entrambi questi elementi sono guidati dalla sintassi della linea curva che tende a declinarsi secondo angolazioni smussate a diversa gradazione. È una linea che avviluppa ma che non assume mai la forza di spire asfissianti, che accoglie ma non imprigiona. Filippi non accetterebbe mai di suggerire concetti formali che costringono, che rubano la libertà. Anzi sono proprio la libertà e il gioco delle potenzialità che lo caratterizzano come uomo e come artista. Non a caso, tra le sue scelte tematiche troviamo riferimenti alla libertà ed al confronto e mai alla supremazia ed al dominio. Anzi egli ha più simpatia per i vinti che per i vincitori. L’opera in marmo “Ettore e Andromaca” , ne è una dimostrazione.
La linea curva come abbraccio, dunque. E questa soluzione formale gli sale istintivamente dal profondo. Perché egli non accetta la prevedibilità vuota della linea retta. Lo scultore-architetto-ecologista Friedensreich Hundertwasser ha sempre sostenuto che “la linea retta è senza Dio”. Scriveva negli anni Ottanta: “La linea retta porta alla caduta dell’umanità. È una linea tracciata da una mano pavida, col righello, senza riflessione o sentimento: una linea che non esiste in natura. Questa è la nostra vera ignoranza”. E Filippi non è affatto ignorante. Sa che oggi il mondo non va più semplificato in una asettica griglia geometrica, come auspicava Clement Greenberg.
Qual è dunque il merito artistico di Filippi? Quello di aver creato la “forma ondulata dialogica”. La sua scultura, e in particolare quella recente, si costruisce sulla plasticità binomiale, in cui si apprezza la stereospecificità di due corpi in accoppiamento-sdoppiamento, che accusano la loro comune genesi per esprimersi nello scambio, nel dialogo delle loro ragioni formali, per crescere insieme senza rinnegare l’unità originaria. Questa è la forte caratteristica della scultura di Filippi, che lo differenzia dagli altri artisti che come lui e prima di lui parimenti si sono misurati nella produzione di forme simili. Il registro creativo di Filippi è quello che si muove sull’asse della plasticità sinuosa a superficie liscia. Su questo asse troviamo molti artisti che, però, agiscono muovendosi sui due poli dell’asse stesso. Abbiamo il polo astrattista e il polo bio-essenzialista. Tra i padri del polo astrattista, troviamo il francese Hans Jean Arp che, a partire dagli anni Trenta, crea opere in bronzo imperniate sulla ricerca di forme che non hanno riferimento a quelle della realtà: sono forme in cui le rotondità e la morbidezza delle estremità fanno pensare ad un universo di “ortaggi alieni”. Anche lo spagnolo Edoardo Chillida, negli anni Novanta, crea sculture con forme curve e levigate le quali danno più il senso dell’oggetto artificiale, crudo, che la senzazione del ritrovamento di una forma oggettiva. Entrambi questi artisti giocano su forme autosufficienti, uniche ed impermeabili. E su questo stesso tema si possono collocare anche le piccole opere in marmo degli anni Novanta della scultrice cinese Cynthia Sah, le quali restano nel novero dell’oggettualità astratta, ma in qualche ambito ammiccano verso il solco dello sdoppiamento. Di uno sdoppiamento però freddo e formale che, nonostante la sua connotazione negativa, viene reso positivo ed eccellente dall’inglese Tony Cragg in alcune sue sculture di diversa datazione come Early form del 1993 e McCormack del 2007.
Il polo bio-essenzialista ospita quelle creazioni che alludono alla realtà organica e biologica, a quella realtà ripulita dalle incrostazioni camuffanti, per consegnare forme stilizzate ed essenziali che fanno intravedere la verità nascosta della natura vivente, reinventata ogni volta dall’estetica del segno e del volume. È questo un polo ben rappresentato dagli artisti italiani. Tra questi ricordiamo il lombardo Alberto Viani. I suoi lavori (in particolar modo quelli degli anni Ottanta) sono un omaggio al corpo umano ricostruito nella fluidità di una linea essenziale che ne ha tratteggiato il senso anatomico di superficie, consegnandoci una silhouette contratta nei torsi, insolita ed inusitata. Anche Emanuele Rubini ha lavorato sulla figura umana, interpretandola con un codice affusolato, levigato e tagliente, con punte vibranti, che egli ha saputo trasportare anche nelle opere destinate a catturare gli elementi della natura come il fuoco e il vento.
Che cosa ha fatto di diverso e in più Filippi rispetto a questi artisti? Qual è la sua originalità? Egli ha aggiunto qualcosa: ha aggiunto la poesia del dialogo. Non il dialogo tra l’opera e il fruitore, che è lo scopo di qualunque opera, ma il dialogo interno all’opera. La plasticità di Filippi ha trovato la strada vitale della forma gravida pronta a sdoppiarsi in due entità; ha individuato nel rapporto semantico dei volumi la vitalità interna ed organica della scultura. Non è solo un rapporto di quantità tra vuoto e pieno, bensì un rapporto di qualità tra due pieni che si muovono nelle feritoie dello spazio. Nascono così la forma concedente e la forma ricevente, una forma che apre e una che chiude, un volume concavo e uno convesso, una sinusoide positiva e una negativa. Il tutto regala un dialogo infinito, in cui la complementarietà plastica appare come la struttura di un enzima che catalizza chimicamente la molecola vicina. Se nell’opera di Viani e di Rubini troviamo i concetti di torsione e di tensione, affidati ad una linea curva tagliente ed ansiosa, se nell’opera di Rubini il fuoco è affidato ad una sola, lunga lingua che piroetta nell’aria, nell’opera di Filippi invece prevale il concetto della dialogica fondativa, affidato ad una linea curva che alita sentimento e sensualità tra corpi in evoluzione morfologica e semantica; nell’opera di Filippi la fiamma ha almeno due lingue che si corteggiano. Il dialogo delle sue sculture non si chiude alle prime battute, ma riesce a stupire per la sua forza evocativa che non è affidata alla posizione frontale dei corpi stilizzati, ma alla materializzazione dell’ “idea” di scambio. Uno scambio che si alimenta nella linea curva dell’abbraccio sussurrato e promesso. Che si sente anche guardando lo spazio interno ai volumi.
In quali opere di Filippi troviamo tutto questo? In molte. Si intravede già nella potenzialità binaria delle sculture in marmo e in bronzo. Margaret, Danza ,Black flames e Butterfly sono tra queste, in cui la complementarietà dei due pieni regala il senso della dialogica fondativa che dall’unità passa al doppio di sé per poi ricomporsi idealmente in un unico corpo funzionale. Tutto questo è ancora più evidente nelle grosse sculture in acciaio. In queste vi è la maturità delle forme “scambiste”.
La scultura “Personaggi” è un vero e proprio incunabolo. È questa la prima opera in acciaio nella quale Filippi ha distillato la materialità mobile, pesante e giocosa di Alexander Calder, il segno onirico di Joan Mirò, la linea curva di Arp e di Gragg e il bio-essenzialismo di Viani. Il risultato finale è un vero capolavoro. Non è difficile rendersi conto che questo stesso mix creativo ha trovato genesi eccellenti anche nelle successive opere come Sky people, Musicisti, Figure complementari, Conversazione e Fiamme. Ai pochi che hanno e avranno il privilegio di possedere queste opere va la nostra “simpatica” invidia. Che tra l’altro è facile estendere verso tutti coloro che possiedono comunque una scultura o un quadro di Pieralberto Filippi.
Da tutto questo è facile trarre tante buone ragioni per ritenere che una mostra di Filippi sia un evento di sicuro interesse. Perché si tratta di un belvedere per l’occhio e per la mente, a cui può aggiungersi anche il piacere del tatto. Lasciarsi rapire da un’opera d’arte non capita spesso: forse con le sculture di Filippi il corto-circuito potrà verificarsi perché esse parlano con la poesia della forma.
Nelle sculture di Calder, la poesia è sospesa, e minaccia di caracollare nel vuoto, ma non cade perché il fruitore la sorregge con il suo sguardo meravigliato. Nelle sculture di Filippi, la poesia è in curva, dove la lettura si riposa, dove essa sussurra le ragioni di un dialogo tra corpi stereospecifici. È una poesia che non stanca, perché non interroga; che ammalia perché si può toccare. Ma con le mani pulite e la mente dilatata.